In bicicletta sulla Via della Seta
4-06-2020 di Alessandro Coscia
La Via della Seta è un reticolo di strade, percorsi, rotte di terra e di mare che da secoli sono attraversate dai popoli e che si è formato e definito nel tempo. All’epoca dello storico greco Erodoto (475 a.C) i commercianti dell’impero persiano achemenide, percorrevano la cosiddetta Via Reale di Persia, da Ecbatana, a Susa e fino al porto di Smirne nel Mar Egeo: il loro viaggio durava circa tre mesi, per un tragitto di 3000 chilometri. Ma i corrieri imperiali, muniti di cavalli freschi, completavano il viaggio nel tempo record di nove giorni.
Da Ecbatana si dipartivano altre vie commerciali che raggiungevano l’India e l’Asia Centrale. Dobbiamo ad Alessandro Magno il passo decisivo verso il consolidamento di comunicazioni regolari fra l’oriente e l’occidente. Il visionario condottiero macedone arrivò fino alla valle dell’Indo: nel 329 a.C., all’imbocco occidentale della Valle di Fergana, nell’attuale Tagikistan, fondò la città di Alessandria Escathe, “Alessandria ultima”, la colonia più remota del suo impero. Come ogni grande leader, Alessandro aveva dei collaboratori all’altezza: il suo ammiraglio Nearco aprì una rotta navale dal delta dell’Indo al golfo Persico. All’epoca della dinastia Han, nel 138 a.C., Chang Ch’ien fu inviato dall’imperatore Wu a cercare il popolo degli Yueh Chi, per stringere un’alleanza difensiva contro gli Xong Nu, i futuri Unni.
Questa ambasceria divenne l’occasione per un’esplorazione di quello che sarebbe diventato il ramo settentrionale della via della Seta, fino alle terre dei Parti. Al suo ritorno, Chang Ch’ien percorse invece la via a sud, in un’impresa che richiese tredici anni di viaggio in tutto. Anni di viaggio, o, se si era attrezzati e veloci, “solo” mesi. Tutto questo non impedì lo sviluppo di un vero e proprio fenomeno di globalizzazione: le persone, le merci, gli eserciti, le idee, le scoperte scientifiche viaggiavano in ogni caso, come raccontiamo nel libro “Storie segrete sulla via della Seta”. Questi sono solo alcuni degli esempi che si potrebbero citare. Quando pensiamo alla Cina, però, una delle immagini iconiche che ci vengono alla mente è quella della bicicletta, al punto da essere stata soprannominata “il regno della bicicletta”.
Non sappiamo chi abbia coniato questa definizione. Ma è evidente che la bicicletta sia stata il mezzo di locomozione per eccellenza, nell’ex impero celeste. La Cina, comunque, ha dovuto attendere il 1950 per avere una produzione di massa e autoctona di cicli. Si trattava di mezzi essenziali, ma ebbero un immediato successo e una diffusione capillare. Il motivo è presto spiegato: in quegli anni il trasporto pubblico non era molto sviluppato e spesso bisognava percorrere lunghi tragitti per andare a prendere l’autobus. Ecco perché divenne subito comodo usare la bicicletta per tutti gli spostamenti. “Negli anni ’60 e 70, insieme alla macchina da cucire e all’orologio da polso, la bicicletta era uno dei tre oggetti indispensabili al momento del matrimonio” (da “Frammenti d’oriente, settembre 2009).
Nel 1979 la produzione di biciclette in Cina arrivò per la prima volta alla cifra di 10 milioni di unità, e da allora questo Paese è sempre stato al primo posto nelle classifiche mondiali, sia per l’uso interno che per l’esportazione.
Le cifre ufficiali parlano di 470 milioni di biciclette attualmente esistenti nel territorio cinese. Dopo una crisi negli anni ’90, in seguito al grande sviluppo industriale e alla diffusione di cicli a pedalata assistita e automobili, con la scomparsa di alcune piste ciclabili, la Cina è tornata alla consapevolezza dell’importanza di questo mezzo. Una consapevolezza che non è solo cinese: l’ecosostenibilità si sta diffondendo in tutto il mondo occidentale, e le tragiche vicende dell’epidemia da coronavirus stanno accelerando anche nelle città europee l’utilizzo della bicicletta come alternativa agli altri mezzi di trasporto pubblici. Ma al di là dell’uso comune, c’è chi ha sempre visto la bicicletta come uno strumento di libertà e di viaggi a prima vista impensabili, a basso impatto ambientale.
Il “cicloviaggiatore” Norman Polselli, nel 2013 partito da Samarcanda in bicicletta ha deciso di affrontare un viaggio sulla via della Seta. Ha percorso 1135 chilometri in sella a una mountain bike, 805 in auto e 980 in treno, fra Kirghizistan e Uzbekistan.
Provate dunque a pensare a tempi più dilatati, al viaggio inteso nella sua accezione più fisica, di reale attraversamento di territori, e non di semplice spostamento da un luogo ad un altro (o da un non luogo ad un altro non luogo, come direbbe l’antropologo Marc Augé), come succede invece se si usa un aereo. A noi interessa questo tipo di viaggiare, che riporta l’uomo in rapporto reale con l’ambiente in cui vive.
4-06-2020 di Alessandro Coscia
La Via della Seta è un reticolo di strade, percorsi, rotte di terra e di mare che da secoli sono attraversate dai popoli e che si è formato e definito nel tempo. All’epoca dello storico greco Erodoto (475 a.C) i commercianti dell’impero persiano achemenide, percorrevano la cosiddetta Via Reale di Persia, da Ecbatana, a Susa e fino al porto di Smirne nel Mar Egeo: il loro viaggio durava circa tre mesi, per un tragitto di 3000 chilometri. Ma i corrieri imperiali, muniti di cavalli freschi, completavano il viaggio nel tempo record di nove giorni.
Da Ecbatana si dipartivano altre vie commerciali che raggiungevano l’India e l’Asia Centrale. Dobbiamo ad Alessandro Magno il passo decisivo verso il consolidamento di comunicazioni regolari fra l’oriente e l’occidente. Il visionario condottiero macedone arrivò fino alla valle dell’Indo: nel 329 a.C., all’imbocco occidentale della Valle di Fergana, nell’attuale Tagikistan, fondò la città di Alessandria Escathe, “Alessandria ultima”, la colonia più remota del suo impero. Come ogni grande leader, Alessandro aveva dei collaboratori all’altezza: il suo ammiraglio Nearco aprì una rotta navale dal delta dell’Indo al golfo Persico. All’epoca della dinastia Han, nel 138 a.C., Chang Ch’ien fu inviato dall’imperatore Wu a cercare il popolo degli Yueh Chi, per stringere un’alleanza difensiva contro gli Xong Nu, i futuri Unni.
Questa ambasceria divenne l’occasione per un’esplorazione di quello che sarebbe diventato il ramo settentrionale della via della Seta, fino alle terre dei Parti. Al suo ritorno, Chang Ch’ien percorse invece la via a sud, in un’impresa che richiese tredici anni di viaggio in tutto. Anni di viaggio, o, se si era attrezzati e veloci, “solo” mesi. Tutto questo non impedì lo sviluppo di un vero e proprio fenomeno di globalizzazione: le persone, le merci, gli eserciti, le idee, le scoperte scientifiche viaggiavano in ogni caso, come raccontiamo nel libro “Storie segrete sulla via della Seta”. Questi sono solo alcuni degli esempi che si potrebbero citare. Quando pensiamo alla Cina, però, una delle immagini iconiche che ci vengono alla mente è quella della bicicletta, al punto da essere stata soprannominata “il regno della bicicletta”.
Non sappiamo chi abbia coniato questa definizione. Ma è evidente che la bicicletta sia stata il mezzo di locomozione per eccellenza, nell’ex impero celeste. La Cina, comunque, ha dovuto attendere il 1950 per avere una produzione di massa e autoctona di cicli. Si trattava di mezzi essenziali, ma ebbero un immediato successo e una diffusione capillare. Il motivo è presto spiegato: in quegli anni il trasporto pubblico non era molto sviluppato e spesso bisognava percorrere lunghi tragitti per andare a prendere l’autobus. Ecco perché divenne subito comodo usare la bicicletta per tutti gli spostamenti. “Negli anni ’60 e 70, insieme alla macchina da cucire e all’orologio da polso, la bicicletta era uno dei tre oggetti indispensabili al momento del matrimonio” (da “Frammenti d’oriente, settembre 2009).
Nel 1979 la produzione di biciclette in Cina arrivò per la prima volta alla cifra di 10 milioni di unità, e da allora questo Paese è sempre stato al primo posto nelle classifiche mondiali, sia per l’uso interno che per l’esportazione.
Le cifre ufficiali parlano di 470 milioni di biciclette attualmente esistenti nel territorio cinese. Dopo una crisi negli anni ’90, in seguito al grande sviluppo industriale e alla diffusione di cicli a pedalata assistita e automobili, con la scomparsa di alcune piste ciclabili, la Cina è tornata alla consapevolezza dell’importanza di questo mezzo. Una consapevolezza che non è solo cinese: l’ecosostenibilità si sta diffondendo in tutto il mondo occidentale, e le tragiche vicende dell’epidemia da coronavirus stanno accelerando anche nelle città europee l’utilizzo della bicicletta come alternativa agli altri mezzi di trasporto pubblici. Ma al di là dell’uso comune, c’è chi ha sempre visto la bicicletta come uno strumento di libertà e di viaggi a prima vista impensabili, a basso impatto ambientale.
Il “cicloviaggiatore” Norman Polselli, nel 2013 partito da Samarcanda in bicicletta ha deciso di affrontare un viaggio sulla via della Seta. Ha percorso 1135 chilometri in sella a una mountain bike, 805 in auto e 980 in treno, fra Kirghizistan e Uzbekistan.
Provate dunque a pensare a tempi più dilatati, al viaggio inteso nella sua accezione più fisica, di reale attraversamento di territori, e non di semplice spostamento da un luogo ad un altro (o da un non luogo ad un altro non luogo, come direbbe l’antropologo Marc Augé), come succede invece se si usa un aereo. A noi interessa questo tipo di viaggiare, che riporta l’uomo in rapporto reale con l’ambiente in cui vive.
Il "made in China" che piaceva agli antichi Romani
a cura di Alessandro Coscia, Archeologo
Il successo del "made in China" non comincia certo nella nostra epoca. La diffusione della seta, nell'impero romano, fu un fenomeno di costume (concedete il gioco di parole) rilevante e inarrestabile. Nelle fonti latine il termine Seres indicava "il popolo della seta" o "il popolo dei tessuti di seta" (Serica) e comunemente si pensa che questo termine indicasse le popolazioni della Cina. Questa definizione ha connotati più funzionali che etnici e in realtà poteva applicarsi a tutti i popoli produttori o commercianti di seta e non solo a quelli che erano gli abitanti dell'impero Qin o Han.
I bachi da seta erano probabilmente coltivati non solo nella Cina propriamente detta, ma anche in Corea e in India già dal II secolo a.C. Un tessuto rinvenuto nella fortezza romana di Dura Europos, nell'attuale Siria, è stato ritenuto infatti di provenienza indiana e non cinese. Allo stesso modo, non è irrealistico pensare che le tecniche di produzione della seta si fossero diffuse nell'Asia Centrale. Inoltre esisteva un tipo di seta cosiddetta "selvatica" prodotta dalle larve di vari tipi di insetti. Questi elementi ci aiutano a spiegare un racconto dello storico e naturalista Plinio che nella sua opera, Historia naturalis (6, 88), descrive i Seres come alti, dai capelli rossi e dagli occhi azzurri. Insomma, non proprio i Cinesi che ci aspetteremmo. Probabilmente Plinio si riferisce a qualche popolazione indoeuropea dell'Asia Centrale, che conosceva la produzione della seta o la commerciava, facendo da tramite fra l'estremo oriente e l'occidente. Questa ipotesi non ridimensiona ovviamente l'importanza della Cina nella produzione e nel commercio della seta, prodotto raffinato ambito dalle donne romane e, in seguito, anche dagli uomini, al punto da diventare oggetto di dibattiti, all'interno della stessa società romana, sulla sfrenatezza e sul lusso eccessivo. Si tratta solo di uno dei molti spunti meritevoli di indagine. Altre storie, miti e simboli aspettano di essere conosciuti sulla "Via della Seta".
Libro STORIE SEGRETE SULLA VIA DELLA SETA. Mimesis Edizioni
ARS ARTIS ha pubblicato la notizia:
L'immagine è della nobile Chun Hui, consorte dell’imperatore della Cina Qianlong (1737–1760), il quinto della dinastia Manciù dei Qing a governare. Chun Hui ci mostra in questo dipinto la preziosità del vestiario che ben rimarca l'elevato status sociale.
a cura di Alessandro Coscia, Archeologo
Il successo del "made in China" non comincia certo nella nostra epoca. La diffusione della seta, nell'impero romano, fu un fenomeno di costume (concedete il gioco di parole) rilevante e inarrestabile. Nelle fonti latine il termine Seres indicava "il popolo della seta" o "il popolo dei tessuti di seta" (Serica) e comunemente si pensa che questo termine indicasse le popolazioni della Cina. Questa definizione ha connotati più funzionali che etnici e in realtà poteva applicarsi a tutti i popoli produttori o commercianti di seta e non solo a quelli che erano gli abitanti dell'impero Qin o Han.
I bachi da seta erano probabilmente coltivati non solo nella Cina propriamente detta, ma anche in Corea e in India già dal II secolo a.C. Un tessuto rinvenuto nella fortezza romana di Dura Europos, nell'attuale Siria, è stato ritenuto infatti di provenienza indiana e non cinese. Allo stesso modo, non è irrealistico pensare che le tecniche di produzione della seta si fossero diffuse nell'Asia Centrale. Inoltre esisteva un tipo di seta cosiddetta "selvatica" prodotta dalle larve di vari tipi di insetti. Questi elementi ci aiutano a spiegare un racconto dello storico e naturalista Plinio che nella sua opera, Historia naturalis (6, 88), descrive i Seres come alti, dai capelli rossi e dagli occhi azzurri. Insomma, non proprio i Cinesi che ci aspetteremmo. Probabilmente Plinio si riferisce a qualche popolazione indoeuropea dell'Asia Centrale, che conosceva la produzione della seta o la commerciava, facendo da tramite fra l'estremo oriente e l'occidente. Questa ipotesi non ridimensiona ovviamente l'importanza della Cina nella produzione e nel commercio della seta, prodotto raffinato ambito dalle donne romane e, in seguito, anche dagli uomini, al punto da diventare oggetto di dibattiti, all'interno della stessa società romana, sulla sfrenatezza e sul lusso eccessivo. Si tratta solo di uno dei molti spunti meritevoli di indagine. Altre storie, miti e simboli aspettano di essere conosciuti sulla "Via della Seta".
Libro STORIE SEGRETE SULLA VIA DELLA SETA. Mimesis Edizioni
ARS ARTIS ha pubblicato la notizia:
L'immagine è della nobile Chun Hui, consorte dell’imperatore della Cina Qianlong (1737–1760), il quinto della dinastia Manciù dei Qing a governare. Chun Hui ci mostra in questo dipinto la preziosità del vestiario che ben rimarca l'elevato status sociale.
La Milano misteriosa dei Celti
21-04-2020 di Alessandro Coscia
Lo storico romano Tito Livio, nel V libro delle sue Storie, scrive che i primi Celti a invadere l’Italia furono una coalizione di varie tribù, raccolte sotto la guida di Belloveso, figlio del re dei Biturigi. Giunti nella zona di Milano, “avendo appreso che erano nel paese degli Insubri” vi si fermarono interpretando come segno favorevole il nome, che era uguale a quello di un villaggio degli Edui, una delle popolazioni che faceva parte della coalizione di Belloveso. Per Livio, insomma, i Celti chiamati Insubri abitavano la zona di Milano già prima dell’invasione gallica di cui parlano le fonti. Come spesso è accaduto nella storia, molto probabilmente, più che invasioni vere e proprie, si sono verificate emigrazioni, scambi, fusioni di culture diverse. La cosiddetta “calata” di Belloveso in Italia e la conquista di Milano, è stata molto probabilmente un trasferimento di una compagnia di guerrieri erranti, un’élite di guerrieri e aristocratici, che si fusero con le popolazioni locali, mantenendo addirittura il nome precedente dell’insediamento: Milano, o “Medhelanon”, in lingua celtica.
Milano, oltre a essere attraversata da vari corsi d’acqua e ricca di sorgenti, sorge alla confluenza di una serie di strade: quella che discende dal passo del Sempione seguendo la val d’Ossola e le sponde del Lago Maggiore, la strada che percorre la valle del Ticino e che mediante i passi del Lucomagno e del San Bernardino conduce alle città del bacino superiore del Reno e per finire quelle del lago di Como e della valle dell’Adda.
Questo fatto ha suggerito a vari studiosi che il nucleo originario di Milano sia nato per precisi motivi di controllo del territorio. La più nota ipotesi sull’origine del nome è quella che vede nell’etimologia il significato di “terra di mezzo”, ma c’è chi intende “Medhelanon” come “santuario centrale” (da Medhe, “mezzo” e lanon, “santuario”).
Il santuario celtico era un “nemeton”, un luogo di culto a cielo aperto, delimitato da un recinto sacro circolare con un’orientazione astronomica. Il recinto poteva essere anche un semplice cerchio di rose selvatiche o di biancospino, pianta sacra alla dea celtica Belisama. Qualcuno ha localizzato questo nemeton nella zona dell’attuale Piazza della Scala. Il cronista Bonvesin della Riva parla ancora, in pieno Medioevo, di cinta di mura fiorite di biancospino. Alla luce degli ultimi elementi emersi sembra confermarsi un modello di città sviluppatasi attorno ad una zona – santuario che aveva funzioni molteplici: religiose, giudiziarie, amministrative e commerciali. Secondo alcuni studiosi, nel tessuto urbano di Milano sarebbe riconoscibile una seconda zona ellittica, attorno al quartiere dove sorge la Biblioteca Ambrosiana, in piazza San Sepolcro, settore nel quale peraltro sarebbe sorto il foro della Mediolanum romana. Tutto si stratifica, i luoghi e gli edifici simbolici vengono riutilizzati, rifunzionalizzati, reinterpretati: sotto il Duomo sorgono i resti della basilica di Santa Tecla. Gli scavi archeologici degli anni ’60 avevano scoperto alcune imponenti murature che a loro volta erano state inglobate nella navata centrale di Santa Tecla. La tradizione ha suggestivamente identificato queste strutture come appartenenti al tempio della divinità originaria celtica di Milano, poi reinterpretata dai Romani come Minerva. Purtroppo queste testimonianze sono andate distrutte, e l’enigma ora resta senza soluzione.
21-04-2020 di Alessandro Coscia
Lo storico romano Tito Livio, nel V libro delle sue Storie, scrive che i primi Celti a invadere l’Italia furono una coalizione di varie tribù, raccolte sotto la guida di Belloveso, figlio del re dei Biturigi. Giunti nella zona di Milano, “avendo appreso che erano nel paese degli Insubri” vi si fermarono interpretando come segno favorevole il nome, che era uguale a quello di un villaggio degli Edui, una delle popolazioni che faceva parte della coalizione di Belloveso. Per Livio, insomma, i Celti chiamati Insubri abitavano la zona di Milano già prima dell’invasione gallica di cui parlano le fonti. Come spesso è accaduto nella storia, molto probabilmente, più che invasioni vere e proprie, si sono verificate emigrazioni, scambi, fusioni di culture diverse. La cosiddetta “calata” di Belloveso in Italia e la conquista di Milano, è stata molto probabilmente un trasferimento di una compagnia di guerrieri erranti, un’élite di guerrieri e aristocratici, che si fusero con le popolazioni locali, mantenendo addirittura il nome precedente dell’insediamento: Milano, o “Medhelanon”, in lingua celtica.
Milano, oltre a essere attraversata da vari corsi d’acqua e ricca di sorgenti, sorge alla confluenza di una serie di strade: quella che discende dal passo del Sempione seguendo la val d’Ossola e le sponde del Lago Maggiore, la strada che percorre la valle del Ticino e che mediante i passi del Lucomagno e del San Bernardino conduce alle città del bacino superiore del Reno e per finire quelle del lago di Como e della valle dell’Adda.
Questo fatto ha suggerito a vari studiosi che il nucleo originario di Milano sia nato per precisi motivi di controllo del territorio. La più nota ipotesi sull’origine del nome è quella che vede nell’etimologia il significato di “terra di mezzo”, ma c’è chi intende “Medhelanon” come “santuario centrale” (da Medhe, “mezzo” e lanon, “santuario”).
Il santuario celtico era un “nemeton”, un luogo di culto a cielo aperto, delimitato da un recinto sacro circolare con un’orientazione astronomica. Il recinto poteva essere anche un semplice cerchio di rose selvatiche o di biancospino, pianta sacra alla dea celtica Belisama. Qualcuno ha localizzato questo nemeton nella zona dell’attuale Piazza della Scala. Il cronista Bonvesin della Riva parla ancora, in pieno Medioevo, di cinta di mura fiorite di biancospino. Alla luce degli ultimi elementi emersi sembra confermarsi un modello di città sviluppatasi attorno ad una zona – santuario che aveva funzioni molteplici: religiose, giudiziarie, amministrative e commerciali. Secondo alcuni studiosi, nel tessuto urbano di Milano sarebbe riconoscibile una seconda zona ellittica, attorno al quartiere dove sorge la Biblioteca Ambrosiana, in piazza San Sepolcro, settore nel quale peraltro sarebbe sorto il foro della Mediolanum romana. Tutto si stratifica, i luoghi e gli edifici simbolici vengono riutilizzati, rifunzionalizzati, reinterpretati: sotto il Duomo sorgono i resti della basilica di Santa Tecla. Gli scavi archeologici degli anni ’60 avevano scoperto alcune imponenti murature che a loro volta erano state inglobate nella navata centrale di Santa Tecla. La tradizione ha suggestivamente identificato queste strutture come appartenenti al tempio della divinità originaria celtica di Milano, poi reinterpretata dai Romani come Minerva. Purtroppo queste testimonianze sono andate distrutte, e l’enigma ora resta senza soluzione.
Spostarsi veloci sulla Via della Seta
24-03-2020 di Alessandro Coscia
Come capita spesso, i nomi arrivano dopo le cose.
La definizione di “Via della Seta” (Seidenstraße, in tedesco), compare per la prima volta nel 1877, in un testo del geografo tedesco Ferdinand von Richthofen. Ma l’antica Via della Seta era in realtà una ragnatela di itinerari, percorsi terrestri, fluviali, rotte marittime, che si snodava fra gli 8000 e i 10000 chilometri, considerando la distanza ideale fra X’ian e Roma. Lungo questo reticolo di contatti si snodavano commerci e traffici di ogni tipo, che riguardavano non solo la seta: spezie, pellami, tappeti, pietre preziose, metalli, sale e sale bianco cristallino che, oltre che per la conservazione di alimenti, era utilizzato nella lavorazione dei metalli. Le vie carovaniere collegavano l’Estremo Oriente, partendo da Chang’an (l’attuale Xi’an), una provincia della Cina centrale, e attraversavano tutta l’Asia e il Medio Oriente, fino all’approdo alle porte dell’Occidente: Costantinopoli/Bisanzio. La seta cinese (la cui natura era ignota, al punto che si pensava fosse di origine vegetale), arrivava così al Mediterraneo e da lì entrava nelle lussuose residenze di faraoni egizi, sovrani ellenistici, imperatori e famiglie nobiliari romane.
Altri prodotti, non meno importanti, viaggiavano in senso inverso: anzi, si può dire che tutto iniziò dai cavalli. I sovrani della dinastia Han avevano bisogno di cavalli forti per i loro eserciti. Le razze equine locali erano troppo piccole e poco resistenti per sopportare scontri e battaglie. Per questo motivo, la corte degli Han decise di aprire e regolamentare il commercio lungo la Via della Seta, nel II secolo a.C. Ma prima ancora, passando lungo il bacino del Fiume Giallo, un metallo prezioso come la giada arrivava in Cina, fin dall’epoca della dinastia Shang (1600-1046 a.C.). Oro, argento, lana, pecore e cammelli dal Medio Oriente percorrevano i vari itinerari fino alle regioni cinesi. Insieme alle merci, si diffusero religioni, filosofie e tecnologie, in una sorta di globalizzazione che si muoveva in entrambe le direzioni, da est a ovest e viceversa. Nemmeno le enormi distanze bastarono a frenare questo meraviglioso movimento di materiali e di idee. Il viaggio dalla Siria alla Cina e ritorno durava uno o più anni, e dipendeva dalle condizioni politiche e militari dei paesi attraversati e da variabili climatiche e metereologiche. Ora viaggiare può essere velocissimo, su quattro ruote e su strade asfaltate, su navi attrezzate a sfidare gli oceani, o sulle rotte aeree. Proprio per questo ci stupisce ancora notare come migliaia di anni fa, nonostante i tempi apparentemente più lunghi, tutto si spostasse comunque in un fantastico intreccio di influssi.
24-03-2020 di Alessandro Coscia
Come capita spesso, i nomi arrivano dopo le cose.
La definizione di “Via della Seta” (Seidenstraße, in tedesco), compare per la prima volta nel 1877, in un testo del geografo tedesco Ferdinand von Richthofen. Ma l’antica Via della Seta era in realtà una ragnatela di itinerari, percorsi terrestri, fluviali, rotte marittime, che si snodava fra gli 8000 e i 10000 chilometri, considerando la distanza ideale fra X’ian e Roma. Lungo questo reticolo di contatti si snodavano commerci e traffici di ogni tipo, che riguardavano non solo la seta: spezie, pellami, tappeti, pietre preziose, metalli, sale e sale bianco cristallino che, oltre che per la conservazione di alimenti, era utilizzato nella lavorazione dei metalli. Le vie carovaniere collegavano l’Estremo Oriente, partendo da Chang’an (l’attuale Xi’an), una provincia della Cina centrale, e attraversavano tutta l’Asia e il Medio Oriente, fino all’approdo alle porte dell’Occidente: Costantinopoli/Bisanzio. La seta cinese (la cui natura era ignota, al punto che si pensava fosse di origine vegetale), arrivava così al Mediterraneo e da lì entrava nelle lussuose residenze di faraoni egizi, sovrani ellenistici, imperatori e famiglie nobiliari romane.
Altri prodotti, non meno importanti, viaggiavano in senso inverso: anzi, si può dire che tutto iniziò dai cavalli. I sovrani della dinastia Han avevano bisogno di cavalli forti per i loro eserciti. Le razze equine locali erano troppo piccole e poco resistenti per sopportare scontri e battaglie. Per questo motivo, la corte degli Han decise di aprire e regolamentare il commercio lungo la Via della Seta, nel II secolo a.C. Ma prima ancora, passando lungo il bacino del Fiume Giallo, un metallo prezioso come la giada arrivava in Cina, fin dall’epoca della dinastia Shang (1600-1046 a.C.). Oro, argento, lana, pecore e cammelli dal Medio Oriente percorrevano i vari itinerari fino alle regioni cinesi. Insieme alle merci, si diffusero religioni, filosofie e tecnologie, in una sorta di globalizzazione che si muoveva in entrambe le direzioni, da est a ovest e viceversa. Nemmeno le enormi distanze bastarono a frenare questo meraviglioso movimento di materiali e di idee. Il viaggio dalla Siria alla Cina e ritorno durava uno o più anni, e dipendeva dalle condizioni politiche e militari dei paesi attraversati e da variabili climatiche e metereologiche. Ora viaggiare può essere velocissimo, su quattro ruote e su strade asfaltate, su navi attrezzate a sfidare gli oceani, o sulle rotte aeree. Proprio per questo ci stupisce ancora notare come migliaia di anni fa, nonostante i tempi apparentemente più lunghi, tutto si spostasse comunque in un fantastico intreccio di influssi.
#iorestoacasa… ma vado a Persepoli
21-03-2020
Tutti a casa. Ed è giusto così, ma la mente può viaggiare ed andare lontano. In questo sito ci piace raccontarvi di arte, design, tendenze e storia. Ci piace seguire percorsi imprevedibili, da un monumento romano di Ravenna, al sogno di un grande condottiero macedone, alle remote regioni dell’oriente.
In questi giorni l’Iran fa parlare di sé, perché condivide con noi il peso e la sofferenza di un’epidemia. Ma l’Iran è anche altro, per fortuna. È quella che, con una definizione nota, si può chiamare culla di antiche civiltà. Come l’impero persiano. All’impero persiano guardava Alessandro Magno, nel suo sogno di coniugare occidente e oriente, quel greco che non si fermava davanti a nulla: assoggettò Persepoli, la “città proibita” dei sovrani achemenidi e al tempo stesso fu conquistato dal fascino arcano della civiltà di Dario I e di Serse.
Un passo dello scrittore greco Plutarco ci lascia intravedere quanto fosse sfarzosa e magnificente Persepoli, la capitale cerimoniale, sede di palazzi e templi favolosi. Plutarco, infatti, racconta che per trasportare a Ecbatana le ricchezze trovate a Persepoli dovette organizzare una carovana di 10000 muli e 5000 cammelli. Una tradizione di racconti, ostili al re macedone, ci dicono che la stessa Persepoli fu bruciata da Alessandro durante un banchetto orgiastico in onore di Dioniso. Sui legami fra Alessandro e il cosiddetto dio dell’ebbrezza, che in realtà è una divinità complessa e misteriosa, si potrebbero dire molte cose. Ci torneremo sopra, senza muoverci da casa ma viaggiando fra le pagine della storia e dei miti antichi.
21-03-2020
Tutti a casa. Ed è giusto così, ma la mente può viaggiare ed andare lontano. In questo sito ci piace raccontarvi di arte, design, tendenze e storia. Ci piace seguire percorsi imprevedibili, da un monumento romano di Ravenna, al sogno di un grande condottiero macedone, alle remote regioni dell’oriente.
In questi giorni l’Iran fa parlare di sé, perché condivide con noi il peso e la sofferenza di un’epidemia. Ma l’Iran è anche altro, per fortuna. È quella che, con una definizione nota, si può chiamare culla di antiche civiltà. Come l’impero persiano. All’impero persiano guardava Alessandro Magno, nel suo sogno di coniugare occidente e oriente, quel greco che non si fermava davanti a nulla: assoggettò Persepoli, la “città proibita” dei sovrani achemenidi e al tempo stesso fu conquistato dal fascino arcano della civiltà di Dario I e di Serse.
Un passo dello scrittore greco Plutarco ci lascia intravedere quanto fosse sfarzosa e magnificente Persepoli, la capitale cerimoniale, sede di palazzi e templi favolosi. Plutarco, infatti, racconta che per trasportare a Ecbatana le ricchezze trovate a Persepoli dovette organizzare una carovana di 10000 muli e 5000 cammelli. Una tradizione di racconti, ostili al re macedone, ci dicono che la stessa Persepoli fu bruciata da Alessandro durante un banchetto orgiastico in onore di Dioniso. Sui legami fra Alessandro e il cosiddetto dio dell’ebbrezza, che in realtà è una divinità complessa e misteriosa, si potrebbero dire molte cose. Ci torneremo sopra, senza muoverci da casa ma viaggiando fra le pagine della storia e dei miti antichi.
Via della seta o via del vino?
16-02-2020
C'era una volta, in una valle ai confini del mondo conosciuto, un vino che poteva invecchiare per decenni. Lo storico greco Strabone, nel libro XI della sua opera Geografia, composta fra il 14 e il 23 d.C., parla infatti della fertile valle della Fergana, nell'attuale regione in Asia centrale che si estende nell'Uzbekistan orientale, nel Kirghizistan meridionale e Tagikistan settentrionale, dove Alessandro Magno fondò una delle numerose città che portavano il suo nome: Alexandria Eschate, Alessandria l'Estrema (o l'Ultima). In effetti questa colonia era davvero il ponte con l'estremo oriente, l'ultima frontiera delle conquiste attuate dal condottiero macedone.
Questa fertilissima regione è citata anche dalle cronache cinesi, i Registri della Grande Storia 历史记录 della dinastia Han, pubblicati attorno al 126 a.C. Nella valle del Fergana, nel cuore della via della seta, sul versante occidentale dei monti del Pamir, i membri delle classi più abbienti della regione facevano immagazzinare centinaia di litri di vino, facendolo invecchiare per più di dieci anni. Questo vino dalle capacità quasi uniche per l'epoca attirò, nel II secolo a.C., l'attenzione anche dei Cinesi e del generale Zhang Qian, che portò nel Palazzo Imperiale alcune "talee" della vite che lo produceva. Lì, una volta coltivata, venne usata per produrre vino per l'imperatore.
Siamo di fronte a uno di quegli intrecci meravigliosi fra civiltà differenti, fra oriente e occidente. E proprio quel percorso che tutti conoscono come "Via della Seta", potrebbe essere stato all'origine un punto nevralgico di diffusione del vino nelle due direzioni: est e ovest.
Si tratta di un'ipotesi approfondita dall'archeologo Patrick Mc Govern e da altri, come lo storico Alessandro Grossato, e ripresa nel libro di recente pubblicazione, "Storie segrete sulla via della Seta", di Alessandro Coscia e Sergio Coppola.
E ora facciamo un salto di secoli, fino alla nostra epoca. Non è un mistero che Italia e Cina, nel 2019, abbiano firmato un trattato che prevede una partnership commerciale ad ampio raggio nello scenario della "Via della Seta". Fra le varie attività interessate da questa iniziativa c'è la nostra produzione vinicola. La Coldiretti, citando dati Istat, afferma: "Sono cresciute del 548% le esportazioni di vino made in Italy in Cina negli ultimi dieci anni". Questa frase ha suggellato il primo, storico accordo fra Coldiretti e le autorità della provincia di Guizhou (40 milioni di abitanti).
Chissà quale sarebbe la reazione dei nostri produttori di vino, o dei loro referenti cinesi, se sapessero che la via della seta e la via del vino sono già state collegate, in un passato remoto.
16-02-2020
C'era una volta, in una valle ai confini del mondo conosciuto, un vino che poteva invecchiare per decenni. Lo storico greco Strabone, nel libro XI della sua opera Geografia, composta fra il 14 e il 23 d.C., parla infatti della fertile valle della Fergana, nell'attuale regione in Asia centrale che si estende nell'Uzbekistan orientale, nel Kirghizistan meridionale e Tagikistan settentrionale, dove Alessandro Magno fondò una delle numerose città che portavano il suo nome: Alexandria Eschate, Alessandria l'Estrema (o l'Ultima). In effetti questa colonia era davvero il ponte con l'estremo oriente, l'ultima frontiera delle conquiste attuate dal condottiero macedone.
Questa fertilissima regione è citata anche dalle cronache cinesi, i Registri della Grande Storia 历史记录 della dinastia Han, pubblicati attorno al 126 a.C. Nella valle del Fergana, nel cuore della via della seta, sul versante occidentale dei monti del Pamir, i membri delle classi più abbienti della regione facevano immagazzinare centinaia di litri di vino, facendolo invecchiare per più di dieci anni. Questo vino dalle capacità quasi uniche per l'epoca attirò, nel II secolo a.C., l'attenzione anche dei Cinesi e del generale Zhang Qian, che portò nel Palazzo Imperiale alcune "talee" della vite che lo produceva. Lì, una volta coltivata, venne usata per produrre vino per l'imperatore.
Siamo di fronte a uno di quegli intrecci meravigliosi fra civiltà differenti, fra oriente e occidente. E proprio quel percorso che tutti conoscono come "Via della Seta", potrebbe essere stato all'origine un punto nevralgico di diffusione del vino nelle due direzioni: est e ovest.
Si tratta di un'ipotesi approfondita dall'archeologo Patrick Mc Govern e da altri, come lo storico Alessandro Grossato, e ripresa nel libro di recente pubblicazione, "Storie segrete sulla via della Seta", di Alessandro Coscia e Sergio Coppola.
E ora facciamo un salto di secoli, fino alla nostra epoca. Non è un mistero che Italia e Cina, nel 2019, abbiano firmato un trattato che prevede una partnership commerciale ad ampio raggio nello scenario della "Via della Seta". Fra le varie attività interessate da questa iniziativa c'è la nostra produzione vinicola. La Coldiretti, citando dati Istat, afferma: "Sono cresciute del 548% le esportazioni di vino made in Italy in Cina negli ultimi dieci anni". Questa frase ha suggellato il primo, storico accordo fra Coldiretti e le autorità della provincia di Guizhou (40 milioni di abitanti).
Chissà quale sarebbe la reazione dei nostri produttori di vino, o dei loro referenti cinesi, se sapessero che la via della seta e la via del vino sono già state collegate, in un passato remoto.
Siete curiosi e volete sapere di più di questo e altri piccoli e grandi misteri?
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