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Un design fatto ad Arte
Pinacoteca di Brera. Milano
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Nel 1977 un coraggioso e visionario direttore della Pinacoteca di Brera, Franco Russoli, decise di gettare un enorme sasso nello stagno del dibattito pubblico sui musei e in particolare sulla situazione della sua istituzione: ideò così la provocatoria mostra Processo per il museo, con lo scopo di attirare l’attenzione sui problemi irrisolti di Brera e sul ruolo dei musei nella società contemporanea. 
In quell’occasione Russoli invitò il geniale designer Bruno Munari, molto sensibile all’aspetto didattico ed educativo delle opere d’arte. Munari progettò uno strumento che offriva un nuovo sguardo sullo Sposalizio della Vergine di Raffaello, uno dei capolavori conservati nella pinacoteca milanese.
Munari si concentrò sugli aspetti formali, spaziali e razionali dell’arte di Raffaello, sul suo approccio da vero umanista, teso a riportare la realtà in un orizzonte misurabile, in cui l’uomo fosse al centro della visione.
La “macchina ottica” ideata dal grande designer enfatizzava le qualità della prospettiva concepita dall’artista urbinate: il visitatore era invitato a osservare il dipinto dal foro di una lastra. Fra la lastra stessa e l’opera era collocata una griglia che proiettava sulla tavola le linee principali della costruzione geometrica. Una visione monoculare che in realtà apriva nuovi sguardi sullo Sposalizio. Il dipinto di Raffaello diventava così un’ “opera aperta”, per dirla con Umberto Eco, sottratta agli sguardi abitudinari dei moderni e degli storici, costretti dolcemente a osservarla con occhi nuovi. 
Munari, per definizione orientato al problema di fare parlare gli oggetti, di esprimerne le potenzialità concrete (cos’è il design, se non una soluzione elegante e funzionale a problemi pratici?), colse il nocciolo fondamentale dell’approccio alle opere d’arte: l’arte – come ha scritto l’attuale direttore della Pinacoteca, James Bradburne – “è sempre contemporanea”, deve comunicare con chi ne fruisce, in ogni epoca storica. Perché siamo noi che la osserviamo a darle un significato, e a riceverne.
E forse non è un caso che, più di quarant’anni dopo, un ritrovamento quasi casuale di una parte dell’allestimento di Munari sia avvenuto sotto la direzione di Bradburne. Per uno di quei misteriosi arabeschi del destino, un altro direttore, non meno visionario di Russoli, e attento alla memoria storica della Pinacoteca, si è trovato di fronte all’occasione di fare rivivere quell’installazione.
James Bradburne, già interessato all’attività di Munari, ha approvato subito l’idea di ricostruire filologicamente il progetto del 1977 e di esporlo di nuovo al pubblico. Una sfida nella sfida: un’offerta in presenza, ai visitatori, in un momento in cui i musei sono costretti a chiudere le loro porte a causa della pandemia. 
La “macchina prospettica” di Munari doveva infatti essere visibile al pubblico ogni domenica, fino a dicembre. Il virus ci ha costretti a sottrarla allo sguardo delle persone, che hanno potuto avvicinare il loro occhio al foro solo per qualche settimana. Ma continua a vivere nella dimensione digitale, sul sito della Pinacoteca, dove è visibile anche il video originale in cui Munari, in una lezione, illustrava il senso della sua invenzione. Ma se le porte sono chiuse, molte altre vie si aprono: il museo non è solo la sua collezione, ma lo staff che ci lavora, le risorse, le energie, il patrimonio umano e intellettuale, il rapporto con la comunità e con il pubblico. 
Quarant’anni dopo gli interrogativi posti da Russoli sono ancora – si direbbe – di sconcertante attualità: quale è il ruolo dei musei nella nostra società liquida e frammentata?
La Pinacoteca, e gli altri luoghi della cultura, provano ogni giorno a rispondere a questo interrogativo.
Alessandro Coscia

Visita virtuale di Brera a cura di Fabrizio Porro 


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